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Prove in appello nel processo tributario

La Corte Costituzionale dichiara incostituzionale il divieto assoluto di depositare deleghe e procure in appello: cosa cambia per difesa, giudici e contenzioso tributario.

Processo tributario nuove prove

1. Il contesto normativo e l'intervento della Corte Costituzionale

La sentenza n. 36/2025 della Corte Costituzionale ha esaminato la compatibilità dell’art. 58, comma 3, del D.lgs. n. 546/1992, così come riformulato dal D.lgs. n. 220/2023, con i principi costituzionali sanciti agli artt. 3, 24, 102 e 111 della Costituzione. La disposizione introduceva un divieto assoluto di produzione, nel giudizio di appello, di alcune categorie documentali: deleghe, procure e atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti, della loro notificazione e della notificazione degli atti presupposti. La problematica si inserisce nel più ampio dibattito sul processo tributario nuove prove e sui limiti alla loro introducibilità nei diversi gradi di giudizio.

Questa preclusione normativa suscitò da subito perplessità in dottrina e presso due diverse Corti di giustizia tributaria di secondo grado (Campania e Lombardia), che sollevarono questione di legittimità costituzionale in via incidentale. Le ordinanze di rimessione sottolineano che tale norma, formulata in termini assoluti, impedisce al giudice di valutare la rilevanza o l’indispensabilità dei documenti esclusi, anche quando risultino decisivi per la definizione della controversia.

La Corte Costituzionale con la sentenza n. 36/2025 ha riconosciuto la fondatezza delle censure, nella parte in cui la disposizione vieta il deposito in appello delle deleghe, procure e atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione, ritenendo che tale norma configuri una ingiustificata violazione del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e del diritto alla difesa (art. 24 Cost.), nonché una indebita limitazione delle prerogative giurisdizionali (artt. 102 e 111 Cost.).

2. Il divieto assoluto di deposito: struttura della norma censurata

Il nuovo art. 58 del D.lgs. 546/1992, riformulato dal D.lgs. 220/2023, è composto da tre commi.

Il primo conferma, con una formulazione più rigida rispetto al passato, il principio generale di inammissibilità di nuovi mezzi di prova e documenti in appello, salvo che il collegio li ritenga indispensabili oppure che la parte non abbia potuto produrli per causa non imputabile. Si tratta di una disposizione centrale nel dibattito sul processo tributario nuove prove e sui limiti alla loro introduzione nei diversi gradi del giudizio.

Il secondo consente motivi aggiunti quando emergano vizi da documenti conosciuti solo dopo il primo grado.

Il terzo comma, oggetto della declaratoria di incostituzionalità parziale, sancisce un divieto categorico di deposito per determinate categorie di atti, utilizzando l’espressione “non è mai consentito”. Questa formulazione evidenzia l’intenzione del legislatore di creare un vincolo inderogabile, anche nei confronti del giudice, escludendo ogni valutazione discrezionale sull’indispensabilità della prova.

Secondo la Corte, il divieto assoluto contrasta con la logica stessa del sistema processuale, dove il giudice deve poter bilanciare le esigenze di economia processuale con quelle di accertamento della verità materiale. La previsione del comma 3 crea una frattura sistemica all’interno dello stesso art. 58, negando al giudice ciò che il comma 1 riconosce come regola generale: il potere di ammettere documenti indispensabili.

3. I profili di incostituzionalità riconosciuti dalla Corte

La Corte Costituzionale, in primis, ha evidenziato la violazione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo della irragionevolezza della norma. Il legislatore ha operato una scelta normativa rigida e immotivata, precludendo in assoluto il deposito di documenti che, per definizione, possono essere determinanti ai fini della legittimità dell’azione amministrativa. Tale rigidità si inserisce nel più ampio contesto delle recenti riforme del processo tributario nuove prove, sollevando interrogativi circa l’equilibrio tra esigenze procedurali e garanzie costituzionali.

È stato poi rilevato un vulnus al diritto alla difesa (art. 24 Cost.), inteso anche come diritto alla prova. La norma censurata ostacola l’esercizio di tale diritto impedendo la produzione in appello di documenti essenziali. Inoltre, si incide sulla parità tra le parti (art. 111 Cost.), poiché la parte pubblica non può produrre documenti necessari a dimostrare la legittimità della propria pretesa, mentre la parte privata conserva spazi più ampi di difesa.

Infine, la disposizione contrasta con l’art. 102 Cost., interferendo illegittimamente nell’attività giurisdizionale. Il legislatore, stabilendo una preclusione assoluta, sostituisce il giudice nel valutare la rilevanza della prova, operando una invasione nel campo della funzione giurisdizionale che dovrebbe restare autonoma e indipendente.

4. Effetti della sentenza

La declaratoria di incostituzionalità produce effetti immediati ed erga omnes. Dal momento della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, la disposizione nella parte censurata non può più essere applicata. Pertanto, i giudici tributari dovranno disapplicare il divieto assoluto di deposito per deleghe, procure e atti di conferimento di potere inerenti alla sottoscrizione degli atti impugnati.

La sentenza impone anche una rilettura della disciplina transitoria contenuta nell’art. 4, comma 2, del D.lgs. 220/2023, che estendeva l’applicazione della riforma anche ai giudizi già pendenti in secondo grado.

Sul punto già la Corte di Giustizia di II Grado Lazio nella sentenza n. 3663/14/24, prima dell’intervento della Corte Costituzionale, mettendo in dubbio l’intera disposizione normativa del nuovo art. 58 del d.lgs. n. 546/1992,  aveva precisa come non potessero “trovare applicazione, ratione temporis, nella fattispecie, le nuove disposizioni in tema di prove e di produzione di nuovi documenti in appello portate dal riformulato art. 58, cit. (qual sostituito dal DLgs. 30 dicembre 2023, n. 220, art. 1, comma 1, lettera bb), secondo il noto principio tempus regit actum”.

La Corte Costituzionale oggi riconosce espressamente che tale scelta normativa è foriera di disparità di trattamento tra chi ha avviato la lite prima della riforma e chi, successivamente, ha avuto la possibilità di adeguare la propria strategia difensiva.

Va sottolineato che la Corte non ha esteso la declaratoria di incostituzionalità al divieto di produzione in appello delle notificazioni degli atti, lasciando aperta la questione. Tuttavia, i principi affermati nella sentenza potrebbero fornire argomenti utili per future eccezioni di incostituzionalità o interpretazioni costituzionalmente orientate a vantaggio per la parte erariale che non è riuscita in I grado a provare la notifica degli atti, ma anche per rimediare ad eventuali errori formali del contribuente nel deposito degli atti e delle notifiche non avvenuto in I grado.

5. Conclusioni

La sentenza n. 36/2025 si inserisce in un percorso che riconosce l’equilibrio tra esigenze di efficienza processuale e garanzie difensive. La Corte Costituzionale ha affermato in modo netto che non è consentito al legislatore precludere in via assoluta l’accesso a documenti che possono incidere sull’accertamento della legittimità dell’azione amministrativa, senza lasciare margine al giudice per valutarne l’indispensabilità, affermando il seguente principio di diritto: “È costituzionalmente illegittima la norma che, nel processo tributario, vieta in modo assoluto il deposito in appello delle deleghe, procure e atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti, impedendo al giudice ogni valutazione sull’indispensabilità della prova.”

 

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