- Pubblicato daValerie Stella De Caro Giordanelli
- -Maggio 23, 2025
- -Diritto societario, News
Le Sezioni Unite si sono espresse sul riconoscimento dei diritti dei conviventi di fatto che partecipano all’impresa familiare, in applicazione delle recenti statuizioni della Corte Costituzionale.

Il caso
Con sentenza n. 11661/2025 la Suprema Corte, a Sezioni Unite, è tornata sul tema della tutela dei diritti dei conviventi di fatto che partecipano all’impresa familiare.
La pronuncia si innesta nell’iter che aveva condotto la stessa Corte, con ordinanza interlocutoria n. 1900/2024, a rinviare gli atti alla Corte Costituzionale per valutare la legittimità di norme che di fatto discriminavano i diritti riconosciuti ai partecipanti all’impresa familiare a seconda che fossero coniugi o conviventi more uxorio.
A seguito di ciò, con la nota sentenza n. 148 del 25 luglio 2024, era stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-bis, comma 3, e dell’art. 230-ter c.c., nella parte in cui non prevedevano a favore dei conviventidi fatto tutele equivalenti a quelle riconosciute al coniuge e ai parenti.
Applicando il nuovo orientamento costituzionalmente orientato, le Sezioni Unite hanno dunque accolto il ricorso presentato da una donna che per anni aveva convissuto stabilmente con un soggetto formalmente sposato con altra donna.
Dopo il decesso del convivente nel 2012, la ricorrente, assumendo di avere prestato stabilmente la propria attività lavorativa nell’impresa agricola di famiglia del de cuius, aveva agito contro i coeredi per ottenere liquidazione della quota a lei spettante quale partecipe all’impresa.
Norme applicabili e cenni sull’impresa familiare
L’impresa familiare è un istituto di grande rilievo introdotto con la riforma del 1975 dall’art. 230 bis c.c. al fine di dare adeguata e paritaria tutela a chi presta in modo continuativo il proprio lavoro nell’attività familiare. La norma riconosce a tali soggetti sia diritti patrimoniali, sia il diritto di partecipare alle decisioni di maggior rilievo riguardanti l’impresa. Fra i diritti patrimoniali vi sono: il diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia; la partecipazione agli utili ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato.
Con la legge n. 76/2016 tale disciplina è stata estesa anche alle unioni civili tra persone dello stesso sesso e ai conviventi di fatto (art. 230 ter c.c.).
L’importanza dell’istituto risiede nella tutela economica di soggetti che prestano una vera e propria attività lavorativa nell’impresa “di famiglia”, superando la presunzione di gratuità.
La posizione della Corte d’Appello di Ancona
Nella sentenza impugnata la Corte d’Appello di Ancona aveva ritenuto che l’art. 230-ter c.c. non fosse applicabile ratione temporis al caso specifico e che non fosse possibile un’applicazione estensiva dell’art. 230-bis c.c. per estendere la tutela prevista per i familiari anche al convivente di fatto.
Inoltre la Corte territoriale considerava diverse ulteriori circostanze ai fini dell’esclusione del diritto della ricorrente ad ottenere la liquidazione della propria quota quale partecipante all’impresa familiare. Fra tali circostanze ostative rientrava il fatto che il de cuius fosse rimasto formalmente sposato con altra donna e che la ricorrente avesse altro impiego.
Il passo avanti verso la parità dei diritti
La Suprema Corte ha dunque accolto le censure mosse nel ricorso, volte a far valere la nuova lettura costituzionalmente orientata delle norme sopra richiamate.
Fra tali censure senz’altro spicca quella relativa alla mutata sensibilità sociale rispetto alla convivenza more uxorio.
Inoltre le censure evidenziano che, sebbene l’art. 230 ter c.c. nell’attuale formulazione sia stato introdotto nel 2016, e dunque successivamente al ricorso da cui era scaturito il giudizio in oggetto, in ambito civile, il principio di irretroattività non è presidiato da una norma costituzionale e, pertanto, può essere derogato laddove vi siano fondate motivazioni.
Resta comunque da accertare, in concreto, l’apporto lavorativo prestato, come prescritto dalla norma.
Questo iter giurisprudenziale testimonia come la legge debba essere intesa come “plastica”, evolutiva e orientata ai tempi. Le norme e la giurisprudenza che le applica devono interpretare le esigenze sociali e i costumi con un’esegesi in continua trasformazione, condividendo le istanze collettive e i sentimenti umani quali substrati inalienabili, senza, tuttavia trascurare gli assunti fondamentali già codificati.
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