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Lo scioglimento del rapporto contrattuale per effetto del fallimento e la proponibilità dell’eccezione di inadempimento: nota a Cass., Sez. I, 13 ottobre 2025, n. 27361

Marco Cavaliere 1. Premessa. – La fattispecie Con l’ordinanza n. 27361 del 13 ottobre 2025 (Pres. Pazzi, Est. Amatore), la Prima Sezione civile della Corte di Cassazione è tornata ad affrontare la delicata questione degli effetti che lo scioglimento del contratto, determinato dal fallimento di una delle parti, produce sul diritto del contraente in bonis e del curatore di opporre l’eccezione di inadempimento in sede di verifica del passivo. La vicenda traeva origine dall’opposizione proposta da una società di revisione avverso il decreto di esclusione, pronunciato dal giudice delegato, del credito insinuato a titolo di compenso per l’attività di revisione legale dei conti svolta a favore di una società poi dichiarata insolvente.La curatela (nella specie, una procedura di amministrazione straordinaria) aveva eccepito l’inadempimento parziale e l’esecuzione non diligente della prestazione professionale, lamentando, in particolare, gravi carenze nella revisione dei bilanci e nell’attestazione dei vincoli finanziari.Il Tribunale di Verona, con decreto del 17 marzo 2023, accoglieva solo parzialmente l’opposizione, ammettendo al passivo il credito in misura ridotta e in chirografo, rigettando altresì la pretesa al riconoscimento del privilegio ex art. 2751-bis, n. 2, c.c. La società opponente proponeva ricorso per cassazione deducendo, tra l’altro, la violazione dell’art. 1460 c.c., assumendo che, una volta sciolto il contratto per effetto del fallimento, non sarebbe più consentito sollevare l’eccezione di inadempimento, istituto funzionale alla conservazione del vincolo negoziale. 2. L’efficacia ex nunc dello scioglimento del contratto e la persistenza dell’eccezione di inadempimento La Suprema Corte respinge il ricorso, riaffermando un principio di diritto di significativa rilevanza sistematica: «Anche laddove il contratto si sciolga per l’intervenuto fallimento di una delle parti, poiché tale scioglimento ha efficacia ex nunc, ciascuna parte e il curatore del fallimento possono sempre rifiutare il pagamento delle opere e dei servizi per la parte non eseguita o non eseguita a regola d’arte, sollevando eccezione di inadempimento, in quanto ragionando diversamente si imporrebbe al debitore di pagare per intero le prestazioni ricevute, pur se in tutto o in parte non eseguite esattamente». Il dictum si pone in linea di continuità con Cass. Sez. I, 20 novembre 2015, n. 23810, e conferma che lo scioglimento del rapporto contrattuale a seguito della dichiarazione di fallimento non cancella retroattivamente gli effetti già prodotti, ma opera ex nunc, lasciando intatti i diritti e le eccezioni maturate sino a quel momento. Ne consegue che il curatore, chiamato a verificare le pretese creditorie relative a prestazioni professionali rese in esecuzione del contratto poi sciolto, può legittimamente opporre l’inadempimento parziale o imperfetto del contraente, negando il pagamento delle somme pretese per la parte non regolarmente adempiuta. Il principio appare coerente con la logica della par condicio creditorum e con il canone di economicità della gestione fallimentare: la procedura non può sopportare l’onere integrale di prestazioni non eseguite correttamente, pena l’ingiustificato arricchimento del creditore professionista. 3. La funzione dell’eccezione di inadempimento nella fase concorsuale La sentenza in commento offre altresì lo spunto per ribadire la funzione non solo conservativa, ma anche difensiva dell’eccezione di inadempimento, intesa quale strumento di autotutela volto a impedire che il debitore sia costretto a corrispondere il prezzo di una prestazione imperfetta. L’argomento difensivo della ricorrente, secondo cui l’eccezione ex art. 1460 c.c. presupporrebbe un contratto ancora in corso di esecuzione, è respinto con motivazione logico-sistematica: l’eccezione non persegue necessariamente la conservazione del vincolo, ma può essere utilmente sollevata anche a rapporto sciolto, al solo fine di paralizzare la pretesa di controparte per prestazioni inesatte. La Corte valorizza così una lettura sostanziale dell’istituto, che travalica il piano statico del sinallagma contrattuale per proiettarsi in quello dinamico dell’equilibrio tra le prestazioni, anche dopo la cessazione del vincolo negoziale. 4. L’onere probatorio e il ruolo della consulenza tecnica d’ufficio Sotto il profilo processuale, la decisione conferma l’orientamento secondo cui, nell’ambito dell’opposizione allo stato passivo, il creditore opponente è onerato della prova dell’esistenza del credito e del corretto adempimento della propria prestazione, mentre la curatela può limitarsi a sollevare eccezione di inadempimento purché specifica e tempestiva. Di particolare interesse è la precisazione circa la natura della consulenza tecnica d’ufficio: trattandosi di CTU percipiente, essa può legittimamente considerare fatti tecnici “secondari”, anche se non specificamente allegati dalle parti, quando la loro valutazione risulti necessaria per rispondere compiutamente al quesito. In ciò la Corte richiama le Sezioni Unite n. 3086/2022, chiarendo che la distinzione tra “fatti principali” e “fatti secondari” consente di evitare indebite censure di ultrapetizione, come nel caso di specie, in cui le deduzioni del consulente avevano integrato — senza innovare — il quadro contestuale dell’inadempimento. 5. Considerazioni sistematiche e riflessi applicativi La pronuncia si inserisce nel solco della giurisprudenza che tende a ricomporre l’unità del diritto contrattuale e quello concorsuale, superando l’idea di una cesura netta tra le due dimensioni.Lo scioglimento del contratto, pur determinando la cessazione del vincolo, non elide gli effetti già prodotti né cancella gli obblighi di correttezza e buona fede gravanti sulle parti.Il curatore, in quanto successore a titolo particolare del fallito, può pertanto far valere tutte le eccezioni opponibili dal debitore in bonis, incluse quelle di inadempimento o di inesatto adempimento, per evitare che la massa sopporti prestazioni non utili o dannose. Nell’ambito dei rapporti professionali — come nel caso della revisione legale dei conti — la decisione assume rilievo pratico anche ai fini della valutazione del privilegio ex art. 2751-bis, n. 2, c.c.: il mancato adempimento secondo regola d’arte non solo riduce l’entità del credito ammissibile, ma può escludere il riconoscimento del privilegio per difetto del presupposto di “effettività” della prestazione. 6. Conclusioni La Cassazione, con l’ordinanza n. 27361/2025, consolida un orientamento che coniuga rigore sistematico e pragmatismo gestionale: lo scioglimento del contratto per fallimento ha efficacia ex nunc e non impedisce l’opponibilità dell’eccezione di inadempimento per prestazioni inesatte, anche quando il rapporto sia ormai cessato.Ne deriva un principio di equilibrio tra tutela della massa e rispetto della corrispettività sinallagmatica, che evita di gravare la procedura concorsuale di oneri economici non giustificati da un’effettiva utilità per l’attivo.

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La risoluzione del concordato preventivo liquidatorio tra oggettività dell’inadempimento e perdita della causa concreta

A cura di Marco Cavaliere Nota a Trib. Milano, Sez. II Civile, 21 luglio 2025, Pres. De Simone, Est. Pipicelli 1. Premessa Con la sentenza in epigrafe, il Tribunale di Milano affronta con rara chiarezza il tema della risoluzione del concordato preventivo liquidatorio, soffermandosi sui criteri di valutazione della “non scarsa importanza dell’inadempimento” e sulla natura oggettiva del relativo accertamento.Il Collegio — composto dalla Presidente Dott.ssa De Simone e dal Giudice relatore Dott. Pipicelli — si colloca nel solco di un orientamento interpretativo volto a ricondurre la risoluzione del concordato a una verifica sostanziale della funzione economico-sociale della procedura, intesa come strumento di soddisfazione, anche parziale, della massa creditoria. 2. Il caso concreto La vicenda trae origine dal ricorso proposto da due creditori chirografari nei confronti della società debitrice, ammessa nel 2019 a concordato preventivo liquidatorio.Nonostante la proroga semestrale dei termini di esecuzione disposta ex art. 9 del D.L. 8 aprile 2020, n. 23 (“Decreto Liquidità”), alla data del 30 giugno 2024 il piano risultava totalmente inadempiuto.Le relazioni del liquidatore giudiziale, prodotte nel procedimento, avevano evidenziato l’assoluta incapacità di realizzare gli asset aziendali (otto esperimenti di vendita andati deserti o con esiti marginali) e l’impossibilità di conseguire anche un pagamento minimo dei creditori chirografari, in violazione della percentuale promessa del 26%.Il Tribunale ha pertanto accertato un’inadempienza strutturale e generalizzata, tale da precludere la realizzazione della causa concreta del concordato e da giustificare la risoluzione del medesimo ai sensi dell’art. 186 l. fall. (ora art. 119 CCII). 3. La gravità dell’inadempimento e la prospettiva oggettiva di valutazione Il giudice meneghino premette che la valutazione della “non scarsa importanza” dell’inadempimento deve essere condotta avendo riguardo al complesso degli obblighi assunti dal debitore verso la massa dei creditori, e non con riferimento al singolo rapporto obbligatorio.Il concordato, infatti, rappresenta un negozio plurisoggettivo e composito, in cui la soddisfazione dei creditori è elemento costitutivo della causa e la cui omologa consegue all’approvazione della maggioranza del ceto creditorio.Ne consegue che la gravità dell’inadempimento deve essere parametrata al mancato raggiungimento dell’obiettivo satisfattivo complessivo del piano, e non all’interesse individuale del creditore istante. 4. La funzione satisfattiva e la perdita della causa in concreto Il Tribunale ha individuato il parametro decisivo della risoluzione nella oggettiva impossibilità di realizzare la soddisfazione dei creditori nei termini concordatari, sottolineando che il venir meno anche di una soddisfazione minima e non irrisoria dei chirografari priva di causa il negozio concordatario.La sentenza richiama in tal senso la Cass., Sez. I, n. 20652 del 31 luglio 2019, la quale ha affermato che il concordato “deve essere risolto […] qualora emerga che esso sia venuto meno alla sua funzione di soddisfare in una qualche misura i creditori chirografari e integralmente quelli privilegiati, salvo che l’inadempimento abbia scarsa importanza, tenuto conto della percentuale di soddisfacimento indicata nella proposta dal debitore”.Il Collegio valorizza inoltre la Cass., Sez. I, n. 18738 del 13 luglio 2018, che ribadisce come la risoluzione debba essere pronunciata “a prescindere da eventuali profili di colpa del debitore, non trattandosi di un contratto a prestazioni corrispettive ma di un istituto avente natura negoziale contemperata da una disciplina che persegue interessi pubblicistici”. In linea con tali approdi, la sentenza richiama altresì Cass. n. 7942/2010, Cass. n. 13446/2013 e Cass. n. 4398/2015, che hanno posto l’accento sulla irrilevanza dell’imputabilità soggettiva dell’inadempimento, dovendo il giudice verificare solo l’effettiva capacità della procedura di conseguire, in base a criteri di ragionevole previsione, la finalità satisfattiva minima. In altri termini, la gravità dell’inadempimento si traduce nella perdita della causa in concreto del concordato, laddove la procedura non sia più in grado di assicurare — neppure in minima parte — la realizzazione dell’utilità promessa al ceto creditorio. 5. L’insolvenza sopravvenuta e la segnalazione al Pubblico Ministero Il Tribunale ha poi rilevato come la società risultasse attualmente insolvente, con un patrimonio netto negativo di circa € 12,4 milioni e un attivo effettivo incapiente rispetto al passivo concordatario.In applicazione dei principi affermati da Cass., Sez. I, ord. n. 30284 del 14 ottobre 2022 e Cass., Sez. I, ord. n. 7087 del 3 marzo 2022, il giudice ha richiamato la nozione di insolvenza quale situazione di “impotenza strutturale” dell’impresa a soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni con mezzi ordinari.Non essendo stata proposta istanza di apertura della liquidazione giudiziale, il Collegio ha disposto la trasmissione degli atti al Pubblico Ministero per le determinazioni di competenza. 6. Considerazioni conclusive La decisione milanese si distingue per rigore argomentativo e coerenza sistematica.Essa chiarisce che la risoluzione del concordato preventivo liquidatorio non è rimessa alla valutazione soggettiva della condotta del debitore, bensì alla verifica oggettiva della funzionalità del piano rispetto alla sua causa economico-sociale.Quando il piano perde la capacità di assicurare anche una minima soddisfazione ai creditori, l’inadempimento non può che qualificarsi di grave entità, comportando la caducazione dell’efficacia dell’accordo e la conseguente segnalazione dell’insolvenza.

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Rilevazione tempestiva della crisi e amministrazione giudiziaria

A cura di Marco Cavaliere 1.0 La prevenzione della crisi nelle imprese sequestrate: obblighi organizzativi e segnalazioni La riforma della disciplina della crisi d’impresa, attuata mediante il d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 (Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza), ha introdotto un complesso sistema normativo orientato all’emersione anticipata delle situazioni di difficoltà economico-finanziaria, nella prospettiva di una gestione tempestiva ed efficiente delle stesse da parte dell’imprenditore e degli organi a vario titolo coinvolti. In tale contesto, le disposizioni contenute negli artt. 25-octies, 25-novies e 25-decies CCII assumono una rilevanza sistemica, prevedendo un articolato meccanismo di segnalazioni e doveri attivatori, che dovrebbe trovare applicazione anche nell’ambito delle imprese sottoposte ad amministrazione giudiziaria. L’art. 3 CCII, infatti, prevede, per l’imprenditore individuale, l’obbligo di adottare misure idonee a rilevare tempestivamente lo stato di crisi e di assumere senza indugio le iniziative necessarie per fronteggiarlo; per l’imprenditore collettivo, invece, il medesimo articolo impone l’adozione di un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato, ai sensi dell’art. 2086 c.c., che consenta di cogliere in tempo utile i segnali premonitori della crisi e di porvi rimedio. L’art. 375 CCII ha inciso profondamente su tale disposizione civilistica, introducendo un secondo comma all’art. 2086 c.c., che impone all’imprenditore in forma societaria o collettiva il dovere di istituire un assetto adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche al fine di rilevare tempestivamente la perdita della continuità aziendale e di attivarsi per l’adozione degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi. Conseguentemente, l’art. 377 CCII ha apportato numerose modifiche al codice civile, tra cui spicca l’intervento di cui all’art. 379 CCII, che ha sostituito i commi terzo e quarto dell’art. 2477 c.c., introducendo nuovi criteri quantitativi per l’obbligo di nomina degli organi di controllo o del revisore legale nelle società a responsabilità limitata e nelle società cooperative. In virtù di tali modifiche, le società tenute alla nomina dovranno procedervi entro il termine di approvazione del bilancio relativo all’esercizio 2022, ove superino per due esercizi consecutivi le soglie fissate dalla norma. Il sistema di emersione anticipata della crisi si articola, dunque, su un doppio livello: da un lato, obblighi di monitoraggio in capo all’imprenditore, e dall’altro, doveri di segnalazione e attivazione posti a carico dell’organo di controllo. Quanto al primo profilo, l’imprenditore è tenuto sia a predisporre ex ante un adeguato assetto organizzativo, sia a effettuare un costante monitoraggio della situazione economico-finanziaria della società. Con riferimento agli organi di controllo, l’art. 25-octies CCII impone l’obbligo di segnalare all’organo amministrativo la sussistenza dei presupposti per l’accesso alla composizione negoziata della crisi. La segnalazione da parte dei cd. creditori pubblici qualificati (Agenzia delle Entrate, INPS, INAIL, Agenzia delle Entrate-Riscossione), disciplinata dall’art. 25-novies CCII, è vincolata alla presenza di specifici crediti rilevanti, come dettagliatamente indicato nel primo comma, lett. a), b), c) e d); i termini e le modalità sono regolati dai commi successivi. Ai sensi dell’art. 25-decies CCII, le banche e gli intermediari finanziari di cui all’art. 106 TUB, in caso di revoca, variazione o revisione di affidamenti, sono tenuti a darne comunicazione anche agli organi di controllo societari, se esistenti. Nessuna previsione è tuttavia espressamente dedicata alle imprese sottoposte ad amministrazione giudiziaria, neppure a quelle rientranti nell’ambito applicativo dell’art. 104 disp. att. c.p.p., pur essendo, a parere di chi scrive, tali imprese soggette ai medesimi obblighi. 2.0 Il ruolo dell’amministratore giudiziario nella rilevazione tempestiva della crisi Da un punto di vista operativo, ci si interroga su chi, una volta nominato l’amministratore giudiziario, sia il soggetto legittimato a istituire l’assetto organizzativo richiesto dall’art. 2086 c.c., ovvero a recepire e attuare le segnalazioni provenienti dagli organi di controllo o dai creditori pubblici qualificati. Ulteriore questione riguarda l’individuazione del soggetto abilitato a richiedere la nomina degli organi di controllo o del revisore, ai sensi dell’art. 2477, commi terzo e quarto, c.c. Tali interrogativi non appaiono affatto oziosi, poiché il d.lgs. n. 159/2011 (Codice Antimafia) non prevede un automatico subentro dell’amministratore giudiziario nella carica di amministratore civilistico della società. L’art. 41, comma 1-ter, CAM, dispone che, in caso di sequestro di partecipazioni sociali idonee a determinare le maggioranze ex art. 2359 c.c., il tribunale può impartire direttive circa la revoca degli amministratori in carica, nominando – ai sensi del comma sesto – l’amministratore giudiziario quale nuovo amministratore della società. In assenza di tale nomina, il tribunale deve comunque disciplinare le modalità di controllo da parte dell’amministratore giudiziario. Pertanto, nei casi in cui venga disposta la revoca dell’amministratore in carica e la contestuale nomina dell’amministratore giudiziario quale legale rappresentante della società, sarà quest’ultimo, previo nulla osta del giudice delegato, a provvedere: (i) all’istituzione degli assetti organizzativi di cui all’art. 2086, secondo comma, c.c.; (ii) all’adozione delle misure conseguenti alla segnalazione ricevuta ai sensi degli artt. 25-octies e 25-novies CCII; (iii) all’eventuale adeguamento dell’atto costitutivo e alla nomina degli organi di controllo ai sensi dell’art. 2477 c.c. L’autorizzazione giudiziale è imprescindibile e dovrà essere richiesta al giudice delle misure di prevenzione o, in ambito penale, al giudice per le indagini preliminari. In caso contrario, l’amministratore giudiziario potrebbe incorrere in responsabilità civile per colpa grave o dolo, in responsabilità amministrativa (ad es. per omessa convocazione dell’assemblea ai sensi dell’art. 2631 c.c.), nonché, in ipotesi di gravi irregolarità, nella revoca dell’incarico ad opera del tribunale. Più problematica è l’ipotesi in cui il tribunale non abbia disposto né la revoca dell’amministratore civile né la nomina dell’amministratore giudiziario quale legale rappresentante, né abbia stabilito modalità concrete di controllo. In tale evenienza, la posizione dell’amministratore giudiziario risulta ambigua, non potendo questi agire iure proprio in sostituzione dell’organo amministrativo, né essendo titolare ex lege dei poteri gestori. In giurisprudenza è stato affermato che il sequestro di azienda e partecipazioni non comporta ex se la trasformazione dell’amministratore giudiziario in amministratore civilistico; occorre, a tal fine, una delibera assembleare o un provvedimento espresso del tribunale. Una soluzione praticabile è che l’amministratore giudiziario, nei casi in cui l’amministratore in carica coincida con la figura dell’imprenditore (come nelle imprese a connotazione familiare), formuli richiami e solleciti formali, invitandolo ad adempiere agli obblighi di cui all’art. 3

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La nozione “bifronte” di omogeneità delle classi nel P.R.O. e i confini della deroga agli artt. 2740–2741 c.c.

Nota a Trib. Monza, 12 marzo 2025, Pres. Giovanetti, Est. Ambrosio A cura di Marco Cavaliere Abstract La pronuncia in epigrafe afferma, con nettezza sistematica, che nel piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (P.R.O.) la deroga alla responsabilità patrimoniale generica e al par condicio creditorum ex artt. 2740–2741 c.c., contemplata dall’art. 64-bis, comma 1, CCII, è legittima soltanto se maturata all’esito di un voto unanime di tutte le classi, previamente costituite nel rigoroso rispetto del criterio di omogeneità delineato dall’art. 2, comma 1, lett. r), CCII, criterio che ha natura cumulativa e si sostanzia nella convergenza sia della posizione giuridica sia degli interessi economici dei crediti compresi nella singola classe. L’eventuale unanimità non possiede virtù “sanante” rispetto a vizi genetici di tassonomia: l’erronea ingegneria delle classi determina ipso iure l’inammissibilità della proposta. Parole-chiave: P.R.O.; classi di creditori; omogeneità (posizione giuridica / interessi economici); deroga al par condicio; prededuzione; lavoratori e T.F.R.; transazione fiscale. 1. Coordinate del dictum e ratio decidendi La massima cristallizza un duplice principio: (i) la deroga all’ordine legale di soddisfazione non è esito discrezionale del proponente, ma frutto di un consenso informato e unanime delle classi correttamente costituite; (ii) l’“omogeneità” della classe non tollera letture riduttive: essa abbraccia, ad un tempo, l’omologia ordinamentale del rango (privilegio/garanzia vs. chirografo) e la comparabilità funzionale degli interessi economico-sociali sottesi ai crediti aggregati. In difetto, l’architettura classificatoria è affetta da vizio originario che rende la proposta inammissibile, non emendabile quoad iudicium di omologa. 2. Il quadro fattuale-procedimentale essenziale All’esito di istanza ex art. 44 CCII e successive integrazioni, la proposta di P.R.O. perviene all’udienza camerale con talune rimodulazioni (tra cui il trattamento della prededuzione professionale, la disciplina della classe dei lavoratori/T.F.R., la presentazione di offerte irrevocabili su azienda ed assets). Permangono, tuttavia, criticità sulla classe “pubblicistica” (Agenzia delle Entrate, INPS, INAIL), sì che il Collegio, preso atto anche del diniego di transazione fiscale, dichiara l’inammissibilità per vizi nella formazione delle classi. 3. L’omogeneità come requisito “a doppia soglia” 3.1. Versante della posizione giuridica La coabitazione, nella stessa classe, di crediti assistiti da privilegi eterogenei e di crediti chirografari infrange il criterio ordinamentale di rango. L’argomento “unitario” del credito pubblico (comune matrice erariale/previdenziale; convergenza operativa nella riscossione) non vale per se a fondare l’aggregazione: il titolare del voto è distinto per ciascun ente e la differente causa legittimante del privilegio ne esige la separazione. 3.2. Versante degli interessi economici Sotto il profilo teleologico-funzionale, rilevano la fonte del credito, la relazione con la continuità, la struttura del rischio e il payoff atteso. Anche qui, il trittico AE/INPS/INAIL palesa traiettorie economiche non sovrapponibili (fiscale vs. contributivo/assicurativo), onde la classe unitaria si rivela spurio conglomerato e, come tale, incompatibile con l’art. 2, comma 1, lett. r), CCII. 4. La deroga agli artt. 2740–2741 c.c. nel P.R.O.: consenso unanime come “titolo sostitutivo” dell’ordine legale Nel P.R.O. il superamento della gerarchia legale dei pagamenti non discende da vis autoritativa, ma da un patto procedimentale: tutte le classi, legittimamente composte, devono consentire alla redistribuzione proposta. L’unanimità è dunque condizione necessaria e convalidante, ma solo se riferita a classi costituite secundum legem. Conseguentemente, l’unanimità ottenuta su una mappa di classi mal formata non produce effetti: quod nullum est, nullum producit effectum. 5. Profili specifici toccati dal decreto (a) Prededuzione “funzionale” e segmentazione del ceto professionale. Piena prededuzione per compensi degli organi e per l’Esperto ex art. 25-ter, co. 12, CCII; prededuzione parziale (75%) per i professionisti “funzionali” al deposito del P.R.O., con il residuo 25% da allocare in classe autonoma a tutela della trasparenza allocativa. (b) Lavoratori e T.F.R.: accollo, rinunce e (eventuale) sterilizzazione del voto. L’effettività dell’accollo liberatorio del T.F.R. richiede offerta irrevocabile assistita da idonea cauzione e rinunce espresso-formali alla solidarietà ex art. 2112 c.c.; in difetto, i crediti permangono nel perimetro classificatorio e devono ricevere trattamento conforme ai termini dell’art. 64-bis (30 giorni per i privilegiati). (c) Privilegiati “non votanti” e orizzonte dei 180 giorni. La promessa di pagamento entro 180 giorni reclama copertura probatoria robusta: flussi contrattualizzati, stime indipendenti coerenti con gli storici, affidabilità delle controparti. Mere enunciazioni programmatiche non integrano sufficiente “bancabilità” del cronoprogramma. (d) Fondo compenso commissario. Corretto l’approccio prudenziale ancorato ai parametri massimi del d.m. 30/2012, quale presidio di veridicità del fabric economico del piano. 6. Osservazioni critiche e ricadute sistematiche 7. Vademecum operativo (minimum standard redazionale) 8. Conclusioni La decisione monzese riordina la grammatica del P.R.O.: prima l’esatta tassonomia delle classi (duplice omogeneità, giuridica ed economica), poi l’eventuale deroga all’ordine legale mediante unanimità effettiva e consapevole. L’unanimità è sigillo, non cerotto: se apposta su classi viziatamente composte, non sana e non legittima. Ne discende un monito pratico: l’ars componendi delle classi non è segmento ancillare, ma architrave di validità dell’intero edificio negoziale-procedimentale.

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Patrocinio a Spese dello Stato nel Processo Tributario: Le Sezioni Unite Fanno chiarezza sul rimedio esperibile avverso il rigetto e revoca del provvedimento di ammissione al beneficio: Cass. S.U. 23.7.2025, n. 20929

A cura di Maria Caterina Inzillo. a) Il Caso La vicenda riguarda un contribuente al quale, dopo un’iniziale ammissione, era stato revocato il beneficio del patrocinio a spese dello Stato in un procedimento dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale. Contro l’atto di revoca il contribuente ha proposto opposizione ex art. 99 DPR 115 del 2022 al Presidente della commissione tributaria, che lo ha accolto, disponendo ““la revoca della revoca” dell’originario provvedimento di ammissione”. Successivamente la Commissione del patrocinio a spese dello Stato presso la Commissione tributaria provinciale ha convocato il contribuente per “discutere e deliberare in merito alla sua istanza di opposizione al decreto di revoca” e lo ha rigettato. Il contribuente ha proposto ricorso per cassazione avverso tale ultimo provvedimento. La Corte ha dato atto della lacunosità della normativa  circa il rimedio per opporsi al provvedimento di revoca dell’ammissione a patrocinio a spese dello Stato nel processo tributario,  e – vista  la particolare importanza della questione  – ha rimesso gli atti per l’assegnazione alle Sezioni unite con il seguente quesito: se, ai sensi dell’art. 99 ovvero dell’art. 170 d.P.R. n. 115 del 2002, in quest’ultimo caso ex art. 111 Cost., per la proposizione di rimedio impugnatorio avverso il provvedimento di revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato nel processo tributario, il ricorrente debba rispettare il termine di 20 ovvero di 30 giorni dalla pronuncia del medesimo ovvero dalla sua comunicazione, ove assunto a seguito di scioglimento di riserva dell’organo decidente”. b) la Decisione Le Sezioni Unite hanno dichiarato il ricorso per cassazione inammissibile. Il principio di diritto affermato è che i provvedimenti di rigetto o di revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, adottati dalla Commissione istituita presso le Commissioni Tributarie, devono essere impugnati con l’opposizione prevista dall’art. 170 del d.P.R. 115/2002 (Testo Unico sulle Spese di Giustizia), e quindi, dinanzi al giudice civile. Viene così esclusa l’applicabilità del diverso rimedio previsto per il processo penale dall’art. 99 dello stesso Testo Unico. c) Spunti Rilevanti La sentenza offre diversi spunti di notevole interesse: d) Conclusione Questa pronuncia è un punto di riferimento fondamentale per chi si occupa di contenzioso tributario. Le Sezioni Unite della Corte hanno definitivamente stabilito che l’azione da esperire avverso un diniego o una revoca del gratuito patrocinio è l’opposizione prevista dall’art. 170 del testo unico sulle spese di giustizia da proporsi davanti al tribunale civile con il ricorso disciplinato dall’art. 15 del d.lgs. n. 150 del 2011, richiamato dall’art. 170 stesso T.U.. L’opposizione, regolata  dal rito semplificato di cognizione, deve essere proposta entro trenta giorni dalla sua comunicazione o notificazione. La scelta del rimedio errato comporta, come nel caso di specie, l’inammissibilità dell’impugnazione. #PatrocinioASpeseDelloStato #ProcessoTributario #SpeseDiGiustizia #DirittoProceduraleCivile #Cassazione #SezioniUnite #Avvocati #ContenziosoTributario

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Le Sezioni Unite chiariscono: il recupero del credito del Fondo di Garanzia PMI non è materia tributaria

A cura di Marco Cavaliere Le Sezioni Unite chiariscono: il recupero del credito del Fondo di Garanzia PMI non è materia tributaria Cass., Sez. Un., 18 luglio 2025, n. 20022, Pres. D’Ascola, Rel. Luciotti La giurisdizione spetta al giudice ordinario, anche se la riscossione avviene tramite Agenzia Entrate – Riscossione: esclusa la natura tributaria del credito sorto a seguito dell’escussione della garanzia pubblica. Con l’ordinanza n. 20022 del 18 luglio 2025, le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione affrontano e risolvono una delicata questione di giurisdizione in materia di finanziamenti bancari assistiti da garanzia pubblica prestata dal Fondo di garanzia per le PMI. La vicenda prende le mosse da un contratto di prestito d’uso d’oro stipulato tra una società e un istituto bancario, garantito da intervento pubblico ai sensi della legge n. 662/1996. A seguito dell’inadempimento della società, la banca escute la garanzia e ottiene dal Fondo il pagamento di una quota del credito. Il Gestore del Fondo, per surroga, agisce quindi per il recupero della somma erogata, affidando il relativo credito ad Agenzia Entrate – Riscossione, che notifica una cartella di pagamento. La società destinataria impugna la cartella davanti al giudice tributario, ma si apre un conflitto di giurisdizione, risolto mediante regolamento preventivo. La decisione: credito pubblico ma non tributario Le Sezioni Unite escludono che il credito vantato dal Gestore del Fondo, benché pubblico, abbia natura tributaria. La Suprema Corte sottolinea che si tratta di un credito derivante da un’obbligazione surrogatoria, fondata su un’espressa richiesta di garanzia da parte del soggetto finanziato. Non vi è, quindi, alcuna imposizione ex lege, né la pretesa determina una decurtazione patrimoniale in assenza di un sinallagma contrattuale. La Corte precisa: «Il credito […] ha natura pubblicistica ma non tributaria, per mancanza di qualsiasi presupposto impositivo». La riscossione coattiva mediante cartella è, in questo caso, consentita dal combinato disposto degli artt. 8-bis, comma 3, D.L. n. 3/2015 e 17, D.Lgs. n. 46/1999, ma ciò non incide sulla qualificazione della pretesa. Richiamando ampia giurisprudenza di legittimità e costituzionale (Corte cost. nn. 167/2018, 89/2018, 269/2017), la sentenza ribadisce i requisiti indefettibili del tributo: imposizione diretta ex lege, doverosità della prestazione, irrilevanza della volontà delle parti, destinazione delle risorse a spese pubbliche. Elementi che, nel caso in esame, fanno difetto. Infatti: «Il credito iscritto a ruolo non consiste nell’imposizione ex lege di una prestazione che implica una decurtazione patrimoniale a carico dell’obbligato, ma nell’erogazione di una somma da parte di una banca privata garantita dallo Stato […] e non concorre alla formazione di una base imponibile del reddito». Conclusione: giurisdizione ordinaria e non tributaria La Corte rigetta il ricorso e afferma la giurisdizione del giudice ordinario, richiamando l’art. 2 del D.Lgs. n. 546/1992, che riserva al giudice tributario le controversie in materia di tributi “di ogni genere e specie”. Pertanto, restano escluse dalla sua competenza tutte le pretese, anche pubbliche, che non presentino natura tributaria in senso stretto, ancorché riscosse con le modalità proprie della riscossione esattoriale. Massima redazionale Il credito vantato dal Gestore del Fondo di Garanzia PMI, sorto a seguito dell’escussione della garanzia da parte della banca finanziatrice per inadempimento dell’impresa beneficiaria, non ha natura tributaria. La sua riscossione tramite cartella da parte di Agenzia Entrate – Riscossione, ai sensi dell’art. 8-bis, comma 3, D.L. n. 3/2015 e dell’art. 17 D.Lgs. n. 46/1999, non comporta l’attrazione della controversia nella giurisdizione tributaria, spettando invece al giudice ordinario. (Cass., Sez. Un., 18 luglio 2025, n. 20022)

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Composizione negoziata e misure protettive: irrilevanza del miglior soddisfacimento dei creditori in assenza di un piano finalizzato al risanamento

Nota a Tribunale di Verona, 10 giugno 2025, Pres. Attanasio – Est. Lanni di Marco Cavaliere Con l’ordinanza in commento, il Tribunale di Verona si esprime su una questione di particolare rilevanza sistematica nel quadro applicativo della composizione negoziata della crisi, offrendo una lettura rigorosa e coerente con la finalità istituzionale dell’istituto delineato dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. Nell’ambito di un procedimento di reclamo proposto ai sensi dell’art. 19, comma 7, CCII, avverso l’originario diniego di conferma delle misure protettive ex art. 18 CCII, il Tribunale ha ribadito che la conferma delle misure protettive è subordinata alla presenza di un piano concretamente orientato al risanamento dell’impresa, non potendo invece essere accordata in presenza di soluzioni meramente liquidatorie, ancorché idonee a garantire un miglior soddisfacimento dei creditori rispetto alla liquidazione giudiziale. 1. Il caso concreto: da un’impostazione liquidatoria alla prospettiva di risanamento L’originario diniego alla conferma delle misure protettive era stato motivato dalla constatazione che il piano allegato dall’impresa istante si risolveva in una ristrutturazione dei debiti priva di reali prospettive di continuità, evidenziando un’impostazione sostanzialmente liquidatoria. Nel corso del procedimento di reclamo, tuttavia, l’impresa ha prodotto nuovi elementi documentali, tra cui un’offerta irrevocabile da parte di un terzo soggetto (già comproprietario dell’immobile aziendale), avente ad oggetto:– l’accollo liberatorio di debiti per oltre € 48.000;– un apporto di finanza esterna pari a € 165.000;– l’acquisto dell’intero capitale sociale della reclamante, con contestuale subentro nella gestione dell’attività imprenditoriale. Tali elementi, unitamente alla revoca delle precedenti ipotesi di liquidazione patrimoniale e alla produzione della procura per la cessione delle quote, sono stati ritenuti sufficienti dal Tribunale per ritenere effettivamente configurato un progetto volto al risanamento dell’impresa, giustificando pertanto l’accoglimento del reclamo e la conferma delle misure protettive richieste. 2. La conferma delle misure protettive è possibile solo in funzione del risanamento L’insegnamento che promana dal provvedimento in esame è chiaro: le misure protettive non sono uno strumento disponibile per ogni percorso negoziale, ma esclusivamente per quelli che si fondano su una ragionevole prospettiva di risanamento aziendale. La composizione negoziata – sin dalla norma di accesso (art. 12 CCII) – si caratterizza per la necessaria presenza di concrete possibilità di riequilibrio economico e finanziario dell’impresa. Tale orientamento è confermato anche dall’art. 21 CCII, che, nel disciplinare la gestione dell’impresa durante le trattative, richiama espressamente la perseguibilità del risanamento, nonché dall’art. 19, comma 2, lett. d), che impone all’imprenditore il deposito di un “progetto di piano” dotato di requisiti contenutistici indicati dal D.M. 21 marzo 2023, chiaramente ispirati alla continuità aziendale. Né può ritenersi in senso contrario che l’esito della composizione negoziata possa eventualmente sfociare in un concordato semplificato a prevalente contenuto liquidatorio (art. 23 CCII). Come opportunamente osservato dal Collegio veronese, anche tale esito è subordinato all’accertata infruttuosità di trattative svolte in buona fede e nel presupposto della ragionevole percorribilità di soluzioni conservative, di talché l’eventualità liquidatoria rappresenta una conseguenza patologica, non una alternativa strutturale. Del tutto irrilevante, pertanto, si rivela – nella logica della composizione negoziata – la semplice comparazione tra il risultato ipotetico del piano e quello derivante dalla liquidazione giudiziale. Il miglior soddisfacimento dei creditori, in assenza di una progettualità idonea a consentire la prosecuzione dell’attività, non legittima l’attivazione o la conferma delle misure protettive. 3. La funzione delle misure protettive nel sistema del Codice della crisi Le misure protettive previste dall’art. 18 CCII, sebbene configurate come uno strumento accessorio e temporaneo, svolgono una funzione essenziale nel garantire la stabilità del perimetro negoziale entro il quale si svolgono le trattative tra debitore, esperto e creditori. Tuttavia, tale protezione giuridica, che si sostanzia nel divieto per i creditori di iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari, nonché di acquisire diritti di prelazione non concordati, non può essere concessa a supporto di mere strategie di dismissione patrimoniale, pena lo snaturamento della finalità istituzionale dell’istituto. Il provvedimento in esame riafferma dunque un principio sistemico fondamentale: le misure protettive sono giustificate solo quando funzionali alla salvaguardia del valore aziendale in quanto tale, e non semplicemente alla tutela di interessi creditori ritenuti in via comparativa meglio soddisfatti.

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Accesso alle procedure di sovraindebitamento per le cooperative agricole: la Cassazione solleva questione nomofilattica

A cura di Marco Cavaliere Con l’ordinanza interlocutoria n. 14386 del 29 maggio 2025, la Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione ha rimesso alla pubblica udienza la trattazione di una questione qualificata come di “rilevanza nomofilattica”, concernente l’ammissibilità dell’accesso alle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento da parte di imprese agricole costituite in forma di società cooperativa. 1. Il contesto fattuale e processuale La controversia trae origine dal rigetto del reclamo proposto da una cooperativa agricola avverso la dichiarazione di insolvenza pronunciata dal Tribunale di Siracusa su istanza di un creditore, nonostante la pendenza, in capo alla ricorrente, di una procedura di sovraindebitamento ex L. 3/2012. In sede di gravame, la Corte d’Appello di Catania ha confermato la decisione di primo grado, fondandola, tuttavia, su un distinto e dirimente profilo: la società, in quanto cooperativa agricola, sarebbe soggetta alla liquidazione coatta amministrativa ex art. 2545-terdecies c.c., e pertanto esclusa dal perimetro soggettivo delle procedure da sovraindebitamento. Avverso tale decisione, la cooperativa ha proposto ricorso per cassazione, articolando plurimi motivi, tra cui – per quanto qui rileva – la violazione degli artt. 7, commi 2 lett. a) e 2-bis, L. 3/2012, in relazione all’asserita possibilità, per l’imprenditore agricolo, di accedere alle procedure da sovraindebitamento, a prescindere dalla forma giuridica adottata. 2. Il nodo interpretativo: sovraindebitamento e liquidazione coatta La Corte di Cassazione, ritenendo che la questione presenti un profilo di interpretazione normativa rilevante ai fini dell’uniformità del diritto (art. 374 c.p.c.), ha disposto la trattazione in pubblica udienza. In particolare, il Collegio intende chiarire se l’imprenditore agricolo in forma cooperativa – e perciò astrattamente assoggettabile alla liquidazione coatta amministrativa – possa ugualmente accedere alle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento previste dalla L. 3/2012 (oggi assorbite nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza). Il tema è complesso e tocca un punto nodale del sistema: da un lato, l’art. 7, comma 2, lett. a), della L. 3/2012 esclude dal novero dei soggetti legittimati alle procedure da sovraindebitamento coloro che sono “soggetti a procedure concorsuali diverse da quelle regolate dalla presente legge”; dall’altro lato, il comma 2-bis ammette espressamente l’imprenditore agricolo tra i soggetti accessibili, senza operare distinzione in base alla forma giuridica. 3. Le ricadute sistematiche La questione non è meramente formale: l’eventuale esclusione delle cooperative agricole dalla disciplina del sovraindebitamento significherebbe negare l’accesso a strumenti di regolazione negoziata della crisi ad un intero segmento del tessuto produttivo, il cui inquadramento giuridico è spesso ibrido tra impresa e mutualità. La Cassazione, attraverso questa ordinanza, apre dunque un dibattito importante che si riverbera sulla definizione dei limiti soggettivi delle misure protettive per i debitori civili e minori, specialmente nei contesti rurali e agroalimentari. 4. Conclusioni In attesa della pronuncia della Corte in pubblica udienza, l’ordinanza n. 14386/2025 si segnala per la rilevanza sistemica della questione posta. L’esito potrà incidere in modo significativo sul trattamento delle crisi delle cooperative agricole, contribuendo a delineare, in chiave nomofilattica, il perimetro applicativo delle procedure da sovraindebitamento nel nuovo diritto della crisi.

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La revoca dell’ammissione al concordato semplificato per atti di frode informativa: considerazioni sistematiche a margine di Trib. Milano, 22 aprile 2025, Pres. est. De Simone

di Marco Cavaliere. 1. Premessa: il perimetro della frode concordataria nel nuovo diritto della crisi La pronuncia del Tribunale di Milano del 22 aprile 2025 (Pres. est. De Simone), nell’ambito della procedura R.G. 473/2024, offre un pregevole contributo esegetico in ordine all’interpretazione dell’art. 106 del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (d.lgs. n. 14/2019), nella parte in cui contempla la revoca dell’ammissione al concordato preventivo, anche semplificato, in presenza di atti di frode in danno dei creditori. La decisione si segnala in particolare per l’approfondita disamina della valenza decettiva di condotte meramente omissive o reticenti, le quali, pur in difetto di un intento fraudolento dolosamente preordinato, siano tuttavia idonee a compromettere il consenso informato dei creditori e la trasparenza del procedimento. 2. La nozione estensiva di “atto di frode”: tra dissimulazione e incompletezza informativa Il Collegio meneghino aderisce a un’interpretazione estensiva del concetto di “atti di frode”, includendovi non soltanto le condotte commissive classiche (quali l’occultamento dell’attivo, la simulazione del passivo, la dissimulazione di poste contabili fittizie), ma altresì quelle omissioni o reticenze informative che, per la loro intrinseca potenzialità decettiva, determinano una falsa rappresentazione della reale condizione patrimoniale, economica e finanziaria dell’impresa. In particolare, il Tribunale chiarisce che la frode può consistere anche nell’occultamento, mediante appostazioni contabili non veritiere, di situazioni di fatto idonee ad alterare il giudizio valutativo dei creditori, ledendo in tal modo il principio di integrità informativa che presidia il diritto di voto nell’ambito della procedura. È sufficiente, sotto il profilo soggettivo, la consapevole volontarietà della condotta omissiva, non essendo richiesto il dolo specifico di inganno. 3. Il caso concreto: le poste contabili “incoerenti” e l’alterazione dell’informazione finanziaria Nel caso sottoposto al vaglio del Tribunale, la società proponente aveva iscritto nel bilancio al 28.2.2023 una voce “fatture da emettere” per un importo abnorme (oltre 7 milioni di euro), in larga parte riferita a forniture effettuate verso una controllata estera. La fatturazione veniva effettuata a distanza di oltre un anno, in assenza di congrue giustificazioni documentali (DDT, contratti, condizioni economiche), e in modo del tutto incompatibile con il volume d’affari dichiarato dalla partecipata, poi posta in liquidazione. Ulteriori appostazioni contabili, concernenti crediti intercompany per “brand awareness” e per cessioni wholesale, risultavano integralmente azzerate nell’esercizio successivo attraverso sopravvenienze passive, a riprova dell’inconsistenza economica dei valori originariamente iscritti. Ne conseguiva, secondo la ricostruzione del Commissario giudiziale – pienamente condivisa dal Collegio –, l’occultamento della perdita integrale del capitale sociale già al 28.2.2023 e la rappresentazione fuorviante di un patrimonio netto formalmente positivo. 4. La rilevanza dell’informazione omessa nella prospettiva del consenso creditorio Elemento centrale della motivazione del Tribunale è il nesso causale tra l’occultamento contabile e l’induzione in errore del ceto creditorio. L’omessa disclosure circa l’effettiva perdita del capitale, l’inesistenza di alcune poste attive e l’insostenibilità finanziaria del piano proposto hanno determinato un pregiudizio diretto alla possibilità per i creditori di valutare consapevolmente la convenienza della proposta concordataria rispetto allo scenario liquidatorio. Tali circostanze, originariamente non percepite dagli organi della procedura né dai creditori, sono state successivamente accertate nella loro portata effettiva, evidenziando una divaricazione insanabile tra i dati attesi e quelli reali. Ne discende la radicale inidoneità della proposta a soddisfare anche minimamente le ragioni creditorie, con disvelamento tardivo dell’inattitudine funzionale del piano. 5. L’irrilevanza della buona fede formale: verso una responsabilità informativa oggettiva Di particolare rilievo è la sottolineatura operata dal Tribunale circa l’indipendenza della frode da una dolosa preordinazione. È sufficiente – si legge nella motivazione – la consapevole omissione di dati rilevanti o la persistente adozione di rappresentazioni distorte, benché sorrette da perizie e attestazioni apparentemente conformi. Non vale, in tal senso, opporre la regolarità formale della relazione attestativa, ove la stessa si fondi su dati incompleti, disomogenei o non verificabili secondo criteri scientificamente attendibili. Il Collegio stigmatizza anche l’inadeguatezza degli assetti organizzativi, amministrativi e contabili della società proponente, da tempo noti agli organi di controllo e già rilevati dal revisore e dall’attestatore, a conferma di una colpevole sottovalutazione della portata degli obblighi informativi e prudenziali gravanti sull’imprenditore in crisi. 6. Conclusioni: sulla funzione sistemica dell’art. 106 CCII e l’esigenza di verità informativa La pronuncia del Tribunale milanese si inserisce nel solco di un orientamento interpretativo volto a riaffermare con vigore la funzione ordinante dell’art. 106 CCII, quale strumento di salvaguardia dell’ordinato svolgimento della procedura e di presidio della lealtà concorsuale. La compressione del diritto di credito, che si accompagna a ogni proposta concordataria, deve necessariamente trovare contropeso nella piena trasparenza dell’informazione ex ante, e nella correttezza dell’adempimento degli obblighi di disclosure. Quando ciò non avvenga, come nel caso di specie, il sistema reagisce con la sanzione più grave: la revoca dell’ammissione e l’apertura della liquidazione giudiziale. Non per punire, ma per ristabilire le condizioni minime di correttezza e verità nel confronto fra debitore e creditori, cardini insopprimibili della fisiologia concorsuale nel diritto della crisi.

Revocatorie fallimentari decorrenza termine
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La decorrenza del termine per l’azione revocatoria fallimentare nel prisma della consecuzione tra procedure concorsuali: riflessioni a margine di Cass., Sez. I, 29 aprile 2025, n. 11224

di Marco Cavaliere 1. Premessa La recente ordinanza della Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione, n. 11224 del 29 aprile 2025, offre lo spunto per rinnovate riflessioni in tema di decorrenza del termine decadenziale per l’esercizio delle azioni revocatorie fallimentari. La decisione ribadisce, in modo chiaro e sistematicamente fondato, che il termine triennale previsto dall’art. 69-bis, comma 1, l. fall. decorre esclusivamente dalla dichiarazione di fallimento, anche nei casi in cui tale pronuncia sia preceduta dalla proposizione di una domanda di concordato preventivo, e dunque in ipotesi di consecuzione tra procedure concorsuali. L’arresto si colloca nel solco di una giurisprudenza volta a preservare la certezza giuridica e la coerenza dogmatica del sistema delle azioni recuperatorie, contro ogni tentazione interpretativa che, sulla scorta di una lettura estensiva del principio di continuità tra procedure, finisca per anticipare l’an dies in assenza di effettiva legittimazione all’azione. 2. Il caso sottoposto al vaglio della Corte Nel caso di specie, il commissario straordinario di una società in amministrazione straordinaria promuoveva azione revocatoria ex artt. 64 ss. l. fall. in relazione a tre pagamenti ricevuti da una controparte commerciale, in un periodo ritenuto sospetto. Il Tribunale di Bologna aveva rigettato la domanda ritenendola tardiva, sulla base dell’erronea individuazione del dies a quo nel giorno di pubblicazione della domanda di concordato, che aveva preceduto la dichiarazione di insolvenza. La Corte d’Appello, in riforma della sentenza di primo grado, aveva invece ricondotto la decorrenza al momento della dichiarazione giudiziale d’insolvenza, con conseguente tempestività dell’azione. 3. L’inapplicabilità della consecuzione al termine dell’art. 69-bis, comma 1 La Corte di Cassazione, confermando la decisione della Corte territoriale, ha chiarito che il termine di tre anni previsto dal primo comma dell’art. 69-bis l. fall. decorre dalla dichiarazione di fallimento – o, nei casi di amministrazione straordinaria, dalla dichiarazione giudiziale d’insolvenza ex art. 49, co. 2, d.lgs. n. 270/1999 – non potendo trovare applicazione alcuna anticipazione basata sul principio di consecuzione tra procedure. La Suprema Corte esclude che tale principio, pur riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità e formalmente recepito dal legislatore (v. art. 69-bis, co. 2), possa operare in deroga al fondamentale precetto di cui all’art. 2935 c.c., secondo cui «la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere». Prima della dichiarazione di fallimento, l’azione revocatoria fallimentare è infatti non proponibile in concreto, difettando il soggetto legittimato ad agire, ossia il curatore. 4. Il discrimen tra periodo sospetto e termine d’azione La Corte opera una netta distinzione, spesso trascurata in sede applicativa, tra il momento rilevante per il calcolo del periodo sospetto – per il quale è rilevante la pubblicazione della domanda di concordato (art. 69-bis, co. 2) – e il momento di decorrenza del termine decadenziale per l’esercizio dell’azione, che rimane quello della dichiarazione di fallimento. La diversa funzione delle due disposizioni esclude qualsivoglia automatismo nel traslare il dies a quo della decadenza a una fase anteriore all’apertura della procedura. 5. La nozione di “termini d’uso” e i presupposti dell’esenzione revocatoria Merita rilievo anche la parte della decisione che si occupa del regime esentivo previsto dall’art. 67, comma 3, lett. a, l. fall. La Corte esclude che i pagamenti oggetto di causa – effettuati con ritardo e, in un caso, tramite un terzo estraneo al rapporto contrattuale – potessero qualificarsi come “effettuati nei termini d’uso”. Viene così confermato l’orientamento secondo cui la regolarità dei pagamenti, non solo formale ma anche sostanziale, è condizione essenziale per l’operatività della causa di esenzione. Il pagamento ritardato, atipico o effettuato tramite debitor debitoris, non può mai rientrare nella nozione restrittiva di pagamento secondo “termini d’uso”, per sua natura riferita a prassi commerciali normali, stabili e tempestive. 6. Conclusioni La pronuncia in commento si pone in linea con l’orientamento giurisprudenziale volto a garantire la certezza del diritto e la tutela dell’equilibrio della massa dei creditori, riaffermando un principio fondamentale in tema di azioni revocatorie fallimentari. In particolare, la Corte di Cassazione ha chiarito come il termine triennale per l’esercizio dell’azione ex art. 69-bis, comma 1, l. fall. non possa che decorrere dalla dichiarazione di fallimento (o di insolvenza, nei casi speciali), giacché solo a partire da tale momento l’azione diviene giuridicamente esercitabile da parte del curatore, in quanto soggetto titolare della legittimazione attiva. Il principio generale desumibile dall’art. 2935 c.c. – secondo cui la prescrizione decorre dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere – viene pertanto trasfuso anche sul piano della decadenza processuale, precludendo qualsiasi anticipazione del termine in ragione di eventuali fasi prodromiche della crisi d’impresa, quali la presentazione di una domanda di concordato preventivo. La regola così affermata garantisce l’equilibrio tra l’interesse della massa alla conservazione dell’attivo e quello del convenuto a non restare indefinitamente esposto a pretese recuperatorie. Come sintesi normativa e logico-sistematica del principio affermato, la Corte ha enunciato la seguente massima: «La decorrenza del termine triennale ex art. 69 bis, comma 1, L. fall., previsto per l’esercizio delle azioni revocatorie fallimentari, deve individuarsi nella dichiarazione di fallimento, posto che prima di tale momento, che coincide con la nomina del curatore fallimentare, l’azione non sarebbe in concreto esercitabile, in applicazione del principio generale di cui all’art. 2935 c.c.; tale regola non trova eccezione neppure nel caso in cui la pronuncia di fallimento si collochi in consecuzione rispetto ad una domanda di concordato preventivo».

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